Il Concordato Preventivo Biennale (CPB) si configura come il nuovo strumento di compliance fiscale introdotto dal governo per favorire l’adempimento spontaneo e migliorare il rapporto tra Fisco e contribuenti. Tuttavia, dietro questo strumento si celano diverse “trappole” sia per chi deciderà di aderirvi e sia per chi, al contrario, deciderà di non farlo.

In sintesi, il Concordato preventivo biennale consente ai contribuenti che applicano gli Isa e a quelli che aderiscono al regime forfetario di fissare preventivamente il reddito d’impresa o di lavoro autonomo da dichiarare per il periodo interessato, aderendo alla proposta dell’Agenzia delle entrate. L’accettazione della proposta di concordato obbliga il contribuente, nei periodi d’imposta oggetto di Concordato, ad adempiere agli ordinari obblighi contabili e dichiarativi, e a riportare gli importi concordati nelle dichiarazioni dei redditi e dell’Irap e alla comunicazione dei dati mediante presentazione dei modelli per l’applicazione degli Isa. Si tratta in concreto di un “congelamento” dei redditi dichiarati ad un importo concordato con l’Agenzia delle entrate. La contropartita a questa determinazione sintetica del reddito imponibile è l’esclusione dagli accertamenti fiscali di cui all’articolo 39 (non la totalità dunque, rimangono ad esempio esclusi quelli previsti dall’art.41) a condizione che, in esito all’attività istruttoria dell’Amministrazione finanziaria, non ricorrano le specifiche cause di decadenza. L’adesione non vale ai fini IVA, e mette al riparo il soggetto che vi ha aderito da successivi controlli, salvo che il contribuente sottragga alla tassazione una quota di ricavi superiore al 30% rispetto a quelli “concordati” o commetta alcune gravi irregolarità previste dall’articolo 22 del Decreto legislativo 13/2024.

Fatta questa sintesi senza dilungarsi sui tecnicismi bisogna intanto analizzare i requisiti di accesso al concordato, che nei fatti, non fa altro che inquadrare il contribuente “concordatario” in una ristretta fascia “elitaria” di soggetti che non hanno debiti tributari o contributivi definitivamente accertati con sentenza irrevocabile o con atti impositivi non più soggetti a impugnazione, ovvero, che entro i termini per aderire al Concordato, hanno estinto i predetti debiti in misura tale che l’ammontare complessivo del debito residuo, compresi interessi e sanzioni, risulti inferiore alla soglia di 5.000 euro. Semplificando, basta avere una rateizzazione in Agenzia di riscossione decaduta, con un debito residuo superiore ai 5.000 euro e lo strumento “ghettizza” il potenziale concordatario a soggetto non meritevole. Lo strumento è precluso anche a chi ha riportato condanna per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, dall’articolo 2621 del codice civile, nonché dagli articoli 648-bis, 648-ter e 648-ter 1 del codice penale, commessi negli ultimi tre periodi d’imposta antecedenti a quelli di applicazione del Concordato.

L’unico dato certo è che i contribuenti, nella quasi generalità dei casi, sottoscrivendo l’accordo con l’Agenzia delle Entrate si troveranno a pagare imposte complessivamente superiori rispetto all’annualità preconcordataria: in altri termini, le proposte formulate dal Fisco non saranno al ribasso in termini di prelievo a titolo di Irpef, Ires e Irap. Si tratta, dunque, si tratta di una vera e propria scommessa, che potrebbe rivelarsi vincente ed estremamente conveniente nell’ipotesi, ad esempio, in cui un professionista sia a conoscenza che, negli anni in cui sarà tassato in base all’accordo, gli sarà assegnato un incarico che farà lievitare significativamente i compensi: è di chiara evidenza che il surplus di reddito beneficerà di una totale esenzione, legittimamente e senza possibilità alcuna che tale situazione possa essere contestata dall’Amministrazione Finanziaria.

D’altra parte, un calo significativo dei compensi o dei ricavi avrà effetti penalizzanti non trascurabili, poiché alla contrazione degli introiti non corrisponderà un minor carico fiscale, irrimediabilmente pattuito con l’accettazione della proposta.

Lo strumento avrebbe dalla sua parte un “ricatto”: nei confronti dei contribuenti che non aderiscono al concordato preventivo biennale o che ne decadono, sarà intensificata l’attività di controllo dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza mediante la programmazione di una maggiore capacità operativa. Gli organi di controllo potranno utilizzare tutte le informazioni contenute nelle banche dati disponibili, anche tramite interconnessione tra loro e con quelle di archivi e registri pubblici, incluse quelle contenute nell’Anagrafe dei conti finanziari. Ciò significa che il Fisco avrà a disposizione un quadro molto dettagliato della situazione patrimoniale e finanziaria dei contribuenti oggetto di verifica.

Questa disposizione rappresenta un chiaro segnale da parte dell’Amministrazione Finanziaria: chi sceglie di non aderire al CPB si espone a un rischio maggiore di finire nel mirino del Fisco. Incrociando i dati provenienti da diverse fonti, sarà più facile individuare eventuali incongruenze o anomalie meritevoli di approfondimento.

L’obiettivo dichiarato è quello di rendere più efficace ed efficiente l’attività di contrasto all’evasione, concentrando le risorse sui contribuenti considerati potenzialmente più a rischio. Al contempo, questa misura funge da deterrente, spingendo indirettamente i contribuenti verso l’adesione al CPB. Si delinea così una strategia a due facce: da un lato si offrono vantaggi e semplificazioni a chi aderisce al concordato, dall’altro si prospetta un inasprimento dei controlli per chi resta fuori. Una sorta di “bastone e carota” fiscale, che incentiva la compliance volontaria facendo leva anche sul timore di controlli più serrati.

A questo proposito vorrei menzionare l’enorme contraddizione (ciliegina sulla torta messa attraverso la conversione in legge del decreto “omnibus”) che attribuisce ai contribuenti concordatari la possibilità di aderire ad una vera e propria “sanatoria” (ravvedimento speciale) attribuendogli la possibilità di far emergere maggiori imponibili evasi negli anni tra il 2018 e il 2022 versando un imposta sostitutiva, per poi tendergli il tranello prolungando di un anno i termini di accertamento successivo, come a creare un “contrappeso” nei confronti di chi aderirà al concordato ma non alla sanatoria. Dunque, prima ti faccio accedere allo strumento solo se sei un contribuente meritevole e poi ti do la possibilità di palesare la realtà celata fino a quel momento sotto mentite spoglie.

Gli interrogativi su questo strumento sono più di uno: la “blindatura” dagli accertamenti non sarà totale e non produrrà effetti rispetto all’Iva, cali di redditività del concordatario non potranno essere opposti nelle annualità oggetto di concordato, senza trascurare il fatto che la minaccia rispetto alle informazioni disponibili dagli organi accertatori non rappresenta nulla di nuovo rispetto agli strumenti già disponibili agli accertatori. Un altro elemento da considerare è la preclusione durante il primo periodo d’imposta oggetto di concordato, alle operazioni di fusione, scissione, conferimento ovvero modifica della compagine sociale, che di fatto limita notevolmente i margini di manovra imprenditoriale (tutto ciò che “immobilizza” l’azienda è spesso un limite).

Con un occhio al passato ci si rende conto che questo strumento ha un precedente e non è assolutamente una novità, la finanziaria per il 2003 aveva già previsto la possibilità di integrare le dichiarazioni relative ai periodi d’imposta per i quali i termini di presentazione fossero scaduti entro il 31 ottobre 2002. I soggetti “congrui” rispetto ai “defunti” studi di settore avrebbero potuto definire le annualità pregresse con un pagamento fisso e i soggetti non congrui avrebbero potuto beneficiare della possibilità dichiarando maggiori ricavi sulla base della elaborazione degli studi di settore stessi. Lo strumento fu un vero e proprio flop, e i contribuenti si salvarono dal “suicidio fiscale”.

SANTI GRILLO, commercialista