Facciamo una premessa sul nome, quello di Bolkestein, che spesso ha campeggiato sui cartelli durante le manifestazioni organizzate dalla categoria dei balneari, la sua direttiva 2006/123/CE presentata dalla Commissione europea nel febbraio 2004, approvata ed emanata nel 2006, venne così detta da Frits Bolkestein, commissario europeo per il mercato interno della Commissione Prodi, che ha curato e sostenuto questa direttiva.

Sono tre gli ambiti principali su cui interviene la direttiva: l’eliminazione degli ostacoli alla libertà di stabilimento delle attività nei diversi Stati, l’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione dei servizi e la creazione di una fiducia reciproca tra gli Stati membri con una progressiva armonizzazione delle politiche. La disciplina Europea entra così a gamba tesa sulle concessioni balneari marittime, infatti secondo il diritto UE, per l’assegnazione di concessioni di occupazione del demanio marittimo, gli Stati membri devono applicare un iter di selezione tra i candidati potenziali se il numero di autorizzazioni disponibili per una certa attività sia limitato a causa della scarsità delle risorse naturali. L’autorizzazione:

è rilasciata per una durata limitata adeguata;

non può prevedere la procedura di rinnovo automatico.

I governi italiani, per non inimicarsi i balneari, hanno quasi sempre prorogato in modo automatico la scadenza delle concessioni in barba alla reiterata procedura di infrazione Ue. L’ultima proroga porta la firma del governo Meloni che le ha estese fino al 31 dicembre 2024 anche se diverse sentenze del Consiglio di Stato, l’ultima lo scorso aprile, hanno ribadito che le concessioni non possono essere rinnovate automaticamente. Contestando anche il fatto che ci siano molte spiagge disponibili (tesi sostenuta dal governo per giustificare la mancata applicazione della direttiva Bolkestein).

In attesa di capire come l’esecutivo risolverà questo caos normativo, il risultato è che stiamo assistendo ad una vera e propria lotta ideologica tra due fazioni opposte: quella che vorrebbe la piena applicazione della Direttiva Bolkestein e quella garantista nei confronti degli attuali titolari delle concessioni.

I temi e gli interessi in ballo sono molteplici, c’è chi contesta che i canoni demaniali siano ad oggi troppo bassi rispetto a quello che sono gli introiti ricavati da quello che dovrebbe essere un bene di pubblica fruizione quale la spiaggia, e a queste teorie si accompagna una vera e propria “caccia alle streghe” sui numeri sommersi sviluppati dalle aziende del settore. Secondo un report di Legambiente del 2023, l’incidenza media del canone sul fatturato di uno stabilimento non supera l’1,2-1,3 per cento. Valga per tutti il caso delle spiagge di Rimini dove le 410 concessioni cittadine versano al demanio appena 3.192.957 euro rispetto a centinaia di milioni di euro di fatturato. In un articolo recente del Sole 24 ore compaiono i dati ufficiali contenuti nei bilanci depositati, che attestano che il settore è in generale in salute (+26% di stabilimenti dal 2011 e un giro di affari in crescita del 43,5% dal 2018 al 2022), ma ciò che induce in “sospetti” è la poca redditività: l’utile ante imposte è pari al 4,9% del giro di affari. In parole povere ogni 100 mila euro di volume d’affari, l’utile sta sotto i 5 mila euro.

I dati crudi da soli però non aiutano a capire il rovescio della medaglia, in primis bisognerebbe settorializzare geograficamente le concessioni, come è possibile far convogliare in un unico paniere società che gestiscono interi pezzi di litorale facendo economie di scala, bagni “boutique” da migliaia di euro a stagione per utenti di altagamma, e la più tradizionale e numerosissima platea di piccole spiagge a conduzione familiare, situate in remote spiagge poco conosciute del Mezzogiorno d’Italia?

Una cosa è certa: non si può lasciare il mercato in balia di sentenze amministrative. Serve un riordino complessivo della materia: il governo deve prendere una posizione netta, intervenire con una legge di sistema, che tuteli e protegga i piccoli operatori che annualmente, con grande sacrificio e investimenti, si scontrano con le difficoltà di un settore che risente di diverse influenze imprevedibili, le mode, le condizioni metereologiche, l’inquinamento delle acque, e le carenze delle istituzioni locali. Mai come in questo caso gli scontri ideologici non portano a nulla, non creare un fronte comune porta solo a peggiorare le condizioni del microsistema economico dei piccoli centri turistici, alla perdita di opportunità occupazionali, e a favorire le “scorribande” di improbabili speculatori. Gestire uno stabilimento balneare in un piccolo centro turistico comporta una visione imprenditoriale diversa da quella delle località più gettonate, l’amore verso la natura e il territorio devono accompagnarsi ad un modo etico di fare impresa, che è prerogativa di chi ancora ama fare il bagno nel mare in cui è nato.

SANTI GRILLO, commercialista