Medico, antropologo, docente universitario, Francesco Bertè (1844-1895) si perfezionò all’estero, insegnò in più d’una università, tra le altre quelle di Sassari e Catania, e pubblicò diverse opere, alcune delle quali da lui stesso tradotte dal tedesco. Ci ha lasciato un interessante saggio sul tatuaggio in Sicilia, apparso nel 1892 e dedicato in particolare ai tatuati di Milazzo, perlopiù naviganti e giovani che prestavano il servizio di leva nella Regia Marina, i cui tatuaggi vennero censiti e raffigurati nell’opera dello stesso Bertè.

 

Francesco Berte’

Nessuna donna di Milazzo presentava tatuaggi: «ignoro se ve ne sia qualcuna fra le prostitute; ma se ve ne fosse, ciò avrebbe non colore locale, ma di casta», affermava il Bertè, che così giustificava la mancanza di tatuaggi tra le nostre donne: «la popolana milazzese, quando si veste a festa, non porta scoperta che la faccia, e non tutta, ed il collo, anche questo non sempre e non tutto! Veggasi in proposito la descrizione dei bei costumi popolani del territorio di Milazzo nel libro del barone Piaggia (edizione del 1866, nda), i quali sventuratamente ora vanno cedendo il posto a quelle dell’ordinario inestetico figurino (…) La faccia è una cosa estremamente delicata, che non si vuol toccare a nessun costo. Il più violento sfregio che si possa infliggere ad una donna è minacciare di tagliarle la faccia. La donna (…) dovrebbe nello stato presente farsi tatuare da un uomo; ma il suo pudore, che ancora si conserva, o s’ostenta, in questa parte della Sicilia, la fa rifuggire dal portare un segno, che indichi come abbia fatto vedere o toccare per qualche tempo ad un uomo, sia anche il fratello o il marito, una parte qualsiasi delle sue carni, le quali si sforza di non denudar mai, nemmeno per lavarsi».

MASSIMO TRICAMO